I videogiochi sono da sempre un media fondamentale nell’industria dell’intrattenimento, non solo per i videogiocatori, ma anche per i grandi brand mondiali. Infatti, tantissimi videogiochi sono bombardati dalle pubblicità di prodotti e brand reali. Questa pratica prende il nome di in-game advertising e cerca in ogni modo di entrare nella mente dei videogiocatori.
Secondo gli ultimi dati di Venture Beat, il mercato dell’IGA (In-Game Advertising) raggiungerà 56 miliardi di dollari entro la fine del 2024. E ciò rappresenta la volontà dei grandi marchi di aumentare l’engagement e la comunicazione diretta con il suo pubblico attraverso i videogiochi. La crescita esponenziale di questo mercato rende l’in-game advertising sempre più appetibile e con grandi margini di profitto.
Ma per capire se sarà davvero così, dobbiamo andare alle radici dell’IGA e tracciarne la sua evoluzione.
Alle origini dell’in-game advertising
Negli anni’80, il cinema e la televisione erano i media di comunicazione più utilizzati dai brand per aumentare la propria notorietà. In “Ritorno Al Futuro”, ad esempio, ricordiamo la presenza di Nike, Pepsi, Texaco, JVC e la birra Miller. In quello stesso periodo, i videogiochi erano ancora agli albori, ma rappresentavano un canale impossibile da ignorare.
Come per la TV e il cinema, sponsorizzare i propri prodotti all’interno di essi sembrava una mossa vincente. Specialmente, per abbracciare le generazioni del futuro.
I primi videogiochi degli anni ‘70 non avevano nessun tipo di grafica visuale, ma solo blocchi di codice. Un’occasione che Scott Adams, sviluppatore di “Adventureland”, sfruttò per piazzarci un advertising sul prossimo gioco in uscita.
Senza volerlo direttamente, Adams diede vita ad una buona strategia di marketing per diffondere il suo nuovo progetto. I videogiochi dell’epoca erano, praticamente, una tela bianca per aspiranti marketers. l’in-game advertising divenne il ponte perfetto per creare una connessione tra il mondo reale e quello virtuale.

I primi casi di in-game advertising
Per molti addetti ai lavori, gli anni ‘80 rappresentarono il periodo più influente nella storia dell’IGA. Nel 1983, Johnson&Johnson lanciò “Tooth Protector”, un videogioco con l’obiettivo di sconfiggere i nemici dei denti e incentivarne la protezione. Inoltre, il gioco era reso disponibile solo ai clienti J&J che spedivano all’azienda i francobolli della prova d’acquisto. Un colpo di genio studiato nei minimi dettagli.
Come descritto nel saggio del 2009 “Changing the game : how video games are transforming the future of business”, gli in-game advertising iniziarono ad entrare sempre più nelle grandi mentalità aziendali come un metodo di ricompensa per i suoi clienti.
In questa maniera, entrambe le parti riscontravano un vantaggio economico e di reputazione. L’IGA iniziava a farsi spazio, per davvero.

Una birra virtuale con Budweiser
Durante lo stesso anno, la birra Budweiser divenne lo sponsor dell’arcade “Tapper”, un videogioco che prevedeva proprio di servire boccali di bionda attraverso dei lanci precisi su ogni bancone. In questo caso, l’advertising combaciava perfettamente con la radice del gioco.
L’azienda tedesca aveva come scopo la diffusione del suo prodotto verso un pubblico decisamente giovane. Quindi pensò bene di inserirsi nella loro routine quotidiana.

Dominos’s Pizza: l’in-game advertising diventa un’arma pericolosa
Uno dei casi più eclatanti dell’in-game advertising è quello di Domino’s Pizza che , nel 1989, diede vita a “ Avoid The Noid”. L’azienda americana è divenuta famosa per il suo slogan: se non ricevi la pizza in meno di 30 minuti, non paghi nulla. Così, per rendere questa promessa ancor più realistica, pensarono di creare una challenge videoludica.
Il personaggio principale, The Noid, creato per la campagna del 1986 dall’agenzia Group 243, sarebbe diventato un’icona pop negli anni a venire (in un episodio dei Simpsons farà una breve comparsa): affrontava diverse challenge per consegnare pizze in meno di 30 minuti con un aspetto goffo e inconfondibile. Infatti, la mascotte identificava sin da subito la catena americana.
Ma un evento rischiò di mandare tutti i piani per aria.

The Noid fu uno dei casi di branding più famosi al mondo, ma non sempre gestito al meglio.
Il 30 gennaio 1989, il 22enne Kenneth Lamar Noid entrò in un Domino’s Pizza di Atlanta con una magnum .357 e prese in ostaggio due dipendenti. Il ragazzo chiese un risarcimento di 100.000 dollari, credendo di essere l’ispirazione principale per il personaggio pubblicitario. Per un caso fortuito di omonimia, a causa di questo evento, l’immagine dell’azienda venne danneggiata.
Lamar credeva che Tom Monaghan, il fondatore di Domino’s Pizza, avesse creato il personaggio con l’idea di perseguitarlo. Infatti, “avoid”, in inglese, significa “evitare”. Il ragazzo, con chiari problemi psichiatrici, si costruì questa trama nella sua mente e finì in un ospedale per schizofrenici dove poi si suicidò, nel 1995.
Il marketing può rivelarsi un’arma a doppio taglio e ritorcersi contro la stessa azienda. L’in-game advertising, in ogni caso, dimostrò il suo enorme potenziale.
Il boom dell’IGA negli anni ‘90
Se gli anni ‘80 avevano posto le basi per la nascita dell’in-game advertising, quelli successivi lo avrebbero reso una delle strategie più utilizzate dai marchi mondiali.
Le tecnologie che avanzavano a grande velocità resero la sua espansione sempre più facile. Si passava da esperienze visuali piatte al 3D, grazie alla nascita di Playstation e Nintendo 64. Di conseguenza, la user experience degli utenti migliorò nettamente come lo sviluppo degli advertisement.
Guerre tra brand all’insegna dell’in-game advertising
Nel 1991, venne rilasciato “James Pond Robocod” con l’endorsement delle cioccolate McVities Penguin in piena vista. Infatti, i pinguini che il personaggio incontra sul suo cammino, sono sosia perfetti ripresi dall’involucro della barretta.

La schermata iniziale del gioco pubblicizzava addirittura i Penguins come “uno dei biscotti più cioccolatosi del mondo”, ignorando ogni tipo di dignità pubblicitaria. Quell’anno, per la prima volta, le vendite delle barrette McVities sorpassarono quelle della rivale Kit-Kat.
Praticamente, i videogiochi erano diventati dei territori di guerra tra brand che desideravano affermarsi sul mercato. Inoltre, fino a James Pond, l’esperienza di gioco non era mai stata alterata dalla presenza degli advertisment.
“Zool” e Chupa Chups, il primo caso negativo di in-game advertising
A quel tempo, il fenomeno dell’IGA stava prendendo piede e tutti volevano partecipare alla festa. Ma, spesso, si supera il limite tra la realtà e il virtuale.
Nel caso di “Zool”, rilasciato nel 1992, la presenza di Chupa Chups divenne un ostacolo per la regolare fruizione del gameplay. Ostacolo che Daniel Morrison, nel 2010, descriveva così:
“Il gioco ha sostanzialmente annullato la linea di demarcazione tra videogiochi non promozionali e advergame, lasciando che il giocatore fosse influenzato negativamente da questa contraddizione”.

Quando l’IGA supera l’esperienza utente: il caso 7-Up
Lo stesso accadde nel 1993 con “Cool Spot” e 7-Up, che ricevette molte recensioni negative per il fatto di essere una pubblicità costante per la bevanda. Il gameplay si trasformò solo in una strategia di product placement infinita, andando completamente fuori strada dallo scopo dell’in-game advertising: farsi notare, ma senza alterare l’esperienza di gaming.
Infatti, secondo uno studio della Louisiana State University, da parte di Ben Lewis e Lance Porter, “la pubblicità incongruente all’interno del gioco può ridurre il senso di realismo percepito e infastidire i giocatori se non è coordinata in modo appropriato con l’ambiente di gioco”.
L’evoluzione dell’in-game advertising negli anni 2000
Dalla fine degli anni ‘90 ad oggi, il mercato dell’in-game advertising è cresciuto esponenzialmente e si è adattato meglio alle esigenze dei videogiocatori. Gli esempi più recenti da citare sarebbero infiniti, ma basta guardare ai videogiochi più famosi del mondo: Grand Theft Auto, Splinter Cell, FIFA, Pizza Hut, Battlefield e Pokemon GO.
GTA, ad esempio, è uno dei videogiochi più influenti e venduti di sempre, quindi un territorio pubblicitario da sfruttare al massimo.
Tutti questi esempi sono state vetrine facili per avvicinare un pubblico sempre più giovane ai prodotti dei brand.
In altri casi, come quello di “Burnout Paradise”, entrò in gioco la strategia politica. Come visibile nella foto, il banner pubblicitario incitava a votare per Barack Obama alle Presidenziali americane del 2008. Quel momento rese chiaro il ruolo dei videogiochi e delle pubblicità nella nostra società, rendendoli impossibili da ignorare.

Mischiare la politica e l’intrattenimento può essere un mix pericoloso. Ma nessuno (?) può giudicare cosa sia giusto o sbagliato.
La relazione attuale tra marketing ed in-game advertising
Secondo Anzu, una piattaforma di in-game advertising, più di 226 milioni di persone giocano ai videogiochi negli Stati Uniti e il 55% di queste persone si identificano “sicuramente” come giocatori. Mentre, il numero di persone in tutto il mondo che giocano ai videogiochi è cresciuto da 2,03 miliardi nel 2015 a 2,96 miliardi nel 2021, secondo un rapporto di Newzoo.
La pandemia, chiaramente, ha accelerato l’uso e dei videogames, soprattutto per la Gen-Z, e il fenomeno dell’in-game advertising sembra associarsi perfettamente a questo target. Negli ultimi tempi, l’IGA ha reso il ruolo del marketing nel mondo gaming molto più importante rispetto al passato, siamo nell’epoca dell’attenzione”, dove si cerca in tutti i modi di entrare nelle vite del proprio pubblico.
Così, gli ultimi mesi hanno cambiato le carte in tavola per molti marketers, specialmente sul misurare le performance delle ads nei videogames. I brand hanno inteso il mondo gaming come un territorio perfetto per creare awareness e richiamo nelle menti dei videogiocatori.
Le nascite del Metaverso e del Web3 hanno agevolato la transizione sempre più fluida tra il reale e il digitale, dove è possibile creare mondi su misura e relazioni di successo.
Un esempio di successo di in-game marketing advertising
Si parla sempre più spesso di attention-based marketing, correlato ai videogames, perché è pressoché impossibile fare a meno delle pubblicità. I prodotti sono diventati parte integrante del gameplay, senza rendere difficoltosa la fruizione dello stesso.
Come riportato da The Drum, Vodafone ha registrato un aumento del 176% dell’awareness della campagna, un aumento del 20% della considerazione del marchio, un aumento del 19% della top-of-mind brand awareness e un aumento del 14% dell’advertising awareness grazie a una recente campagna pubblicitaria all’interno del gioco “Trackmania”.

L’in-game advertising sta crescendo sempre più
Esempi come questo, confermano la direzione intrapresa dal marketing per il futuro. Per costruirsi una presenza sul mercato sarà fondamentale rendersi visibile e cambiare la prospettiva per misurare le perfomance. Questo concetto è stato riassunto da un’intervista di Michael Manning, product manager per la media company Xaxis.
“Il ROI non è qualcosa che riteniamo necessariamente utile nel contesto dell’in-game, perché se si parla di ambienti di gioco, è difficile chiedere a un giocatore di smettere di giocare, di cliccare o di impegnarsi con una pubblicità, di andare da qualche parte lontano dal gioco e di comprare qualcosa. Quindi tutte le conversazioni sul ROI o sulle performance CPA non sono rilevanti dal punto di vista del gioco. Pensiamo invece che le metriche utili dal punto di vista del gioco, o specificamente nel gioco, siano i risultati del marchio”.
Come riportato dagli ultimi dati, il mercato dell’ in-game advertising sembra essere in costante crescita e sempre più al centro delle strategie di marketing moderno. Importante, dunque, sarà garantire un’esperienza di gioco facilmente fruibile e di grande impatto visivo.
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