La Cancel Culture o “cultura della cancellazione” – ovvero la tendenza diffusa in rete di rimuovere persone o aziende per esprimere disapprovazione – è un fenomeno emerso negli ultimi anni, che continua ad accendere e dividere il dibattito pubblico.
Nata sui social come strumento di espressione di alcune minoranze, oggi la Cancel Culture colpisce indiscriminatamente personaggi pubblici, figure storiche e anche i brand.
- Cos’è la Cancel Culture?
- La Cancel Culture colpisce maggiormente i personal brand, ma…
- Il ruolo dei social network nella Cancel Culture
- Le conseguenze della Cancel Culture
- Il rapporto tra i consumatori e la Cancel Culture
- Le ragioni del boicottaggio
- Una cancellazione non è per sempre
- Cancel Culture: tanto rumore per nulla?
- Alcuni esempi di brand boicottati
Cos’è la Cancel Culture?
Il vocabolario Treccani la definisce come un “Atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualcosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”.
Il termine ha origine negli Stati Uniti, a partire da alcune espressioni della comunità afroamericana diffuse su Twitter. Lo scopo era di richiamare l’attenzione del pubblico verso personaggi o aziende che avevano compiuto azioni considerate offensive. Il fine ultimo era quello di rendere nota una decisione personale ai propri followers, non di boicottare o cancellare qualcuno.
A partire dal 2017 con l’introduzione del movimento #MeToo e in seguito nel 2020 con il movimento Black Lives Matter, la Cancel Culture è diventata più pervasiva scatenando diverse opinioni all’interno del dibattito pubblico.
La Cancel Culture colpisce maggiormente i personal brand, ma…
Secondo una ricerca condotta da Forrester, i personaggi pubblici possono subire maggiormente l’impatto della Cancel Culture, ma le aziende non ne sono immuni.
In prima istanza, le pressioni esercitate dal pubblico hanno delle ripercussioni sulle aziende, che temono danni d’immagine causati dall’associazione con figure controverse. Si pensi all’esclusione di Kevin Spacey dalla serie tv “House of Cards” e da ulteriori produzioni Netflix, a seguito delle accuse di abusi sessuali a suo carico.
Oppure, all’eliminazione di Johnny Depp da parte della Warner Bros. dal franchise “Animali Fantastici e dove trovarli”, a seguito della battaglia legale intrapresa dall’ex-moglie dell’attore. O ancora, l’annullamento da parte di Amazon del contratto di distribuzione per alcuni film di Woody Allen, nonostante le accuse mosse dall’ex moglie Mia Farrow a suo carico risalgano a decenni fa. Queste ultime sono costate al regista anche la mancata pubblicazione della propria autobiografia negli Stati Uniti da parte della casa editrice Hachette.
Il ruolo dei social network nella Cancel Culture
Il fenomeno della Cancel Culture è emerso perché i social network hanno dato la possibilità di amplificare e diffondere le istanze dei singoli individui. Questo ha consentito ai consumatori di rivolgersi direttamente alle aziende. Secondo una ricerca condotta da Porter-Novelli, il 64% degli americani ritiene che i social media siano un mezzo per influenzare le aziende. Inoltre, il 68% ritiene che attraverso i social sia possibile modificarne i comportamenti.

Lo scopo della Cancel Culture è quello di richiedere alle aziende un’ammissione di responsabilità per le azioni commesse, o per spingere le aziende ad attuare determinati comportamenti.
Pertanto, alcune scelte strategiche effettuate dalle aziende dipendono anche dalle pressioni esercitate da parte del pubblico attraverso i social.
Di recente, a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, i brand hanno deciso di prendere posizione nel conflitto. Il motivo sono state le richieste e le minacce di boicottaggio da parte dei consumatori. Ad esempio, McDonald’s ha chiuso i propri punti vendita in Russia dopo che #BoycottMcDonald’s era finito nei trend di Twitter.
La Cancel Culture non si limita ad un hashtag sui social, ma può avere ripercussioni anche offline. Una ricerca condotta da YouGov ha rilevato che il 49% del campione selezionato ha ritenuto che le aziende dovrebbero prendere posizione sul conflitto. La ricerca mostra come cambierebbero le intenzioni di acquisto a seconda delle azioni intraprese.

Le conseguenze della Cancel Culture
“Ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per rovinarla”
– Warren Buffett
La Cancel Culture impatta principalmente sulla reputazione delle aziende. Un tempo lo sviluppo dell’immagine di un brand dipendeva soprattutto dalle strategie di storytelling messe in atto dall’azienda. Oggi, non sono più solo le aziende a costruire la propria reputazione; a parlare di loro ci pensano anche i propri consumatori, i propri testimonial o gli influencer e in alcuni casi i propri sponsor pubblicitari. Attraverso i social media, le voci di questi diversi attori sono ulteriormente amplificate e possono incidere sulla percezione della reputazione dei brand.
Ogni anno RepTrack stila la classifica dei primi 100 brand in termini di indice di reputazione. L’indice è basato sulle percezioni dei consumatori circa diversi parametri, tra cui l’impegno ambientale, la governance e l’impegno sociale delle aziende. Quest’anno il punteggio dei brand a livello globale si è ridotto come non accadeva dal 2018.
Secondo quanto riportato da RepTrack, le intenzioni d’acquisto dei consumatori sono direttamente correlate alla reputazione dell’azienda. Al crescere della percezione di impegno delle aziende nei parametri sopracitati, crescono le intenzioni di acquisto.
Oltre al danneggiamento della reputazione di un’azienda, gli effetti della cancel culture si estendono al:
- Danneggiamento della reputazione online e della carriera di un dirigente o di un dipendente;
- Esigere che gli inserzionisti ritirino il sostegno monetario e annullino i contratti pubblicitari con il marchio;
- Ritiro pubblico del supporto finanziario, politico e sociale per i marchi.
Il rapporto tra i consumatori e la Cancel Culture
Una ricerca di YouGov ha evidenziato che nel 2021 il 23% degli italiani boicottava almeno un brand, e che l’11% lo aveva fatto in passato. Inoltre, solo il 22% affermava di escludere totalmente la possibilità di boicottare un’azienda.

Questi dati sono allineati rispetto alla ricerca di Porter-Novelli sui consumatori americani, tendenzialmente più avvezzi a cancellare un brand. Infatti, nel 2021 il 30% degli americani dichiarava di boicottare almeno un brand; il 5% dichiarava di boicottare dai 3 ai 5 brand e solo l’1% dei consumatori dichiarava di boicottare più di 5 brand.
Inoltre, sembra che la tendenza a cancellare le aziende riguardi principalmente le fasce più giovani della popolazione. Una ricerca di Landing Tree del 2019 mostra come la cancel culture riguardi soprattutto la Gen Z (51%) e i Millennials (52%). Le percentuali di consumatori che boicottano un brand si abbassano drasticamente se appartenenti alla Generazione X (37%) o ai Baby Boomers (22%).
Le ragioni del boicottaggio
Uno degli elementi trainanti della Cancel Culture è il concetto secondo il quale “sei ciò che compri”. Per i consumatori, i brand e i prodotti acquistati rappresentano un’estensione della propria individualità e della propria etica. Le campagne di boicottaggio vengono messe in atto quando i comportamenti delle aziende sono percepiti come disallineati rispetto ai valori nei quali i consumatori si rispecchiano.
Pertanto, i motivi che spingono le persone a cancellare un brand sono disparati e variano a seconda del contesto socio-culturale e geografico.
Secondo la stessa ricerca di YouGov, in Italia, le principali ragioni che spingono al boicottaggio riguardano pratiche ingannevoli messe in atto dalle aziende (53%), l’utilizzo di sostanze nocive (49%), il disinteresse verso le pratiche di salvaguardia ambientale (48%) o la violazione dei diritti dei propri dipendenti (47%).

Negli Stati Uniti, sempre secondo la ricerca di Porter Novelli (2021), le ragioni che spingono a boicottare un’azienda sono legate ad ingiustizie razziali (70%), disparità di genere (69%), mancato rispetto dei protocolli COVID (68%). Tali motivazioni si distaccano leggermente da quanto rilevato da una ricerca di Statista condotta l’anno precedente che metteva ai primi posti il maltrattamento degli animali (44%), il mancato rispetto dei diritti dei dipendenti (43%) e la corruzione (40%).
In Germania, i consumatori sono propensi a cancellare un brand se questo reca danno all’ambiente, per corruzione, se i prodotti scatenano implicazioni sulla salute, per razzismo o per il mancato rispetto dei diritti dei dipendenti.
Una cancellazione non è per sempre
In questo contesto risulta strategica la capacità dell’azienda nel gestire prontamente le crisi e mostrarsi autenticamente pentita agli occhi dei consumatori.
Le aziende possono riconquistare i propri consumatori rendendosi aperte al dialogo, riconoscendo i propri errori e scusandosi pubblicamente per le azioni negative commesse.
Solo in alcuni casi si rende necessario un rebranding o un renaming dei propri prodotti.
I risultati della ricerca di YouGov mostrano infatti che il 44% degli italiani decide di tornare a consumare i prodotti dell’azienda precedentemente boicottata, solo dopo che questa si è impegnata a cambiare i propri comportamenti.
Per gli Americani è possibile riacquistare i prodotti dell’azienda cancellata solo dopo che questa ha effettuato delle scuse pubbliche (43%), o ha spiegato le ragioni delle proprie azioni (41%).
Solo il 7% dei consumatori ritiene che la cancellazione sia definitiva anche a seguito di azioni concrete da parte dei brand.
Cancel Culture: tanto rumore per nulla?
La Cancel Culture rappresenta un tema controverso anche tra i professionisti del marketing. Alcuni ritengono che sia un fenomeno dal quale mettersi al riparo, mentre altri sostengono che le campagne di boicottaggio facciano solo tanto rumore.
La ricerca condotta da Forrester (già citata in precedenza) evidenzia che il 57% dei marketing manager ritiene che la Cancel Culture non abbia alcun impatto pratico sulle proprie aziende.
Sebbene le scuse in caso di azioni percepite come scorrette siano necessarie, molti ritengono che i consumatori torneranno comunque a consumare i prodotti dell’azienda boicottata in assenza di ulteriori alternative.
Infatti, il 32% dei consumatori americani e il 31% dei consumatori inglesi afferma che tornerebbe ad utilizzare un brand se questo è particolarmente integrato nelle proprie vite. Oppure, nel caso in cui sia difficile trovare un prodotto sostitutivo di un’altra marca (33% dei consumatori americani e 29% dei consumatori inglesi).
Anche i consumatori italiani tornerebbero ad acquistare un brand boicottato nel caso in cui diventi necessario utilizzare quei prodotti (13%) o perché le polemiche relative ad azioni scorrette dell’azienda si sono dissipate (19%).
Che si tratti di un fenomeno passeggero o che sia destinato a durare nel tempo, certo è che la Cancel Culture crea effettivamente discussione intorno ad alcune aziende.
Alcuni esempi di brand boicottati
Spotify
Il 25 gennaio 2022 il cantante Neil Young ha richiesto che i propri album fossero rimossi da Spotify, dopo aver accusato la piattaforma di sostenere posizioni no-vax. Il colosso dello streaming musicale accoglie il podcast “Joe Rogan Experience” di Joe Rogan – uno dei più ascoltati negli Stati Uniti – all’interno del quale alcuni ospiti hanno espresso opinioni anti vacciniste.
Dopo Neil Young, altri artisti come Joni Mitchell hanno deciso di lasciare Spotify, criticando anche il modello di distribuzione dei compensi economici attuato dall’azienda. La band Belly ha impostato la scritta “Delete Spotify” nella propria homepage della versione desktop della piattaforma, avendo avuto difficoltà a rimuovere i propri brani.

La polemica innescata è stata accolta dal pubblico, che ha prontamente rilanciato #DeleteSpotify su Twitter.
Il risultato è stato che l’azienda ha subito un crollo del 6% delle proprie azioni, già in calo, nelle giornate successive alle dichiarazioni di Neil Young.
La risposta di Spotify è pervenuta da una dichiarazione del proprio Amministratore Delegato, Daniel Ek, il quale ha specificato che Spotify ospita i punti di vista di diversi creator, le cui idee possono discostarsi da quelle dell’azienda. Nonostante ciò, l’azienda si è impegnata ad aggiungere avvisi sui contenuti a qualsiasi materiale che menzioni il Covid-19, e ad indirizzare i suoi utenti ai siti di salute pubblica per ulteriori informazioni.
La Molisana
All’inizio del 2021 il pastificio italiano “La Molisana” è finito al centro della polemica social a seguito di un errore commesso dall’agenzia che cura la comunicazione del Brand. Sul sito dell’azienda erano stati infatti lanciati nuovi formati di pasta, tra cui le Abissine, descritte come “la pasta dal sicuro sapore littorio”.

A seguito del lancio, #laMolisana diventa immediatamente trend su Twitter, scatenando le proteste dei consumatori e le richieste di boicottaggio nei confronti dell’azienda.
Subito sono arrivate le scuse da parte di La Molisana che ha rilasciato un comunicato:

Il 60% dei consumatori italiani ha ritenuto che le scuse dell’azienda fossero necessarie, mentre il 32% sosteneva che sia stato dato troppo risalto all’accaduto.
Aunt Jemima – Pearl Milling Company
Nel 2021 l’azienda Quaker Oats, di proprietà della PepsiCo., ha effettuato il rebranding del proprio marchio Aunt Jemima, leader nella produzione di sciroppo d’acero e mix per pancake nel mercato americano.
Il brand si chiamerà Pearl Milling Company, in riferimento all’azienda che ha iniziato la produzione nel 1889. Anche il logo del brand è stato modificato.
La scelta di rebranding arriva dopo anni di proteste e petizioni da parte dei consumatori che vedevano nel marchio una rappresentazione anacronistica degli afroamericani.

Il rebranding dipende inoltre dalla volontà di Quaker Oats di avvicinarsi alle espressioni del movimento Black Lives Matter, quando le accuse verso il brand hanno iniziato a farsi più insistenti.
Il logo stesso di Aunt Jemima rappresentava infatti Nancy Green, una donna nata in condizioni di schiavitù.
L’azienda ha motivato il rebranding, ammettendo che il marchio rappresentava uno stereotipo razziale, non in linea con i valori del brand.
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